“Fra Cristoforo! Fra
Cristoforo!” Fra Guglielmo spalancò la cella del Fratello Cerimoniere sconvolto
e senza fiato.
Fra Cristoforo si alzò di
scatto con ancora il copri occhi per la notte. La stanza era spoglia come
quella di tutti i francescani. C’era un tavolino con il vangelo e letture
religiose e una candela ancora accesa che illuminava un poster in scala 1:1 di
San Francesco che accarezzava il lupo di Gubbio che scodinzolava con le
babbucce tra i denti.
“Che c’è Fratello
Guglielmo?” Chiese allarmato riconoscendo il novizio dalla voce e turbato dal
suo tono, tanto quanto essere svegliato da una persona anziché dal canto dei
passerotti della sua sveglia. Nessuno avrebbe osato disturbare il suo riposo a
meno che una calamità stesse per piombare sulla comunità dei frati francescani
a Betlemme.
“Li ho visiti. Si stanno
preparando. Sono già scesi. Devono avere in mente qualcosa.” Disse affannato
con voce tremante.
Fra Cristoforo si accorse
che parlava al buio. Si tolse il copri occhi e lo lasciò cadere sul letto. Il
novizio tremava e non era in possesso dei propri nervi. Capì che era
un’emergenza e che non bisognava indugiare.
Scansò dalla porta il
giovane frate che cercava a fatica di riprendere il controllo del proprio
apparato respiratorio. Era andato a letto vestito per il grande giorno in caso
si fosse verificato il problema. E si compiacque per la scelta fatta la sera
precedente prima di coricarsi. Non c’era tempo da perdere. Urlò subito gli
ordini.
“Fra Stuono suona le
campane. Fra Lorenzo, o come dicon tutti Renzo, raduna lo special team, codice
rosso. Fra Wolfgang corri a chiamare i riservisti e sii sicuro che ci sia pure
fratello Piovesan. Fra Carletto… tu stai nella tua cella e non muoverti per
nessun motivo.”
“Ma io potrei…” Iniziò fra
Carletto.
“Stai fermo lì. E non
toccare nulla.” Intimò perentorio il cerimoniere conoscendo la pericolosità del
frate più maldestro che avesse mai conosciuto.
“Forza, non c’è tempo da
perdere! Loro si sono già mossi. Credono di prenderci alla sprovvista. Pensano
che noi riposiamo. Sono convinti di essere più scaltri di noi. Ma si sbagliano
di grosso. I frati francescani non si faranno mai fot... non si faranno mai
anticipare da loro.” Poi con voce tonante aggiunse. “Fratelli, per Francesco,
per Benedetto, siamo noi i prescelti!”
Un coro di “Sì!” si elevò
fino ai piani superiori e chi ancora dormiva si svegliò e capì che quello era
il momento. Nel trambusto di sandali e porte che sbattevano si sentì pure un
“Eh che cazzo!”. Fra Cristoforo prese mentalmente nota della voce. Ci avrebbe
pensato dopo con calma.
Scese nella cappella e
ripassò mentalmente lo schema. Tutto sarebbe dipeso dall’organizzazione e dai
movimenti sincronizzati. Anche affrettando la tempistica ce l’avrebbe fatta.
Non si sarebbe fatto anticipare. Pensavano di averlo preso in contropiede. Ma
lui sapeva come controbattere. Non per niente nei corridoi lo chiamavano Frate
Trap. Avrebbe bloccato ogni loro tentativo sul nascere. Era pronto. E i suoi
confratelli erano i migliori che aveva personalmente preparato all’evento.
Sperava solo che fratello Carletto rimanesse nella cella. Quello che toccava
rovinava. Toccò la chiave che teneva legata al cordone simbolo dei francescani.
Era la chiave della cella di Carletto. Si tranquillizzò. Non avrebbe dovuto
farlo, ma in quella situazione bisogna agire per il bene supremo dell’ordine e
della Chiesa Cristiana di Roma.
Ottantotto secondi e lo
special team che aveva dormito con i vestiti era pronto in fila per due. Si
mise in testa. Fece un segno col sopracciglio a frate Luciano e questi intonò
con voce potente il canto con voce da tenore. La fila si mosse.
Dietro a Fra Cristoforo
c’erano fra Luciano col suo canto e fra Lorenzo, o come dicon tutti Renzo, che
agitava velocemente il turibolo pieno di incenso creando una profumata nuvola
di fumo che avvolse il gruppetto. Dietro a loro fra Guglielmo reggeva un
vangelo da 60 chili aiutato da fra Roberto da La Spezia detto Camallo. Dopo di
loro i movimenti coordinati dello special team composto da fra Jean-Claude da
Bruxelles detto Muscolo, fra Iglesias da Madrid detto Amor, fra Adolf da Monaco
detto Baffo, frattte Giusepppe da Nuoro Nuraghe dettto, fra “*” da Enna detto
Innominato. Chiudevano la fila fratello Ultimo da Polcenigo, e fra Umberto da
Casso, chiamato anche fra Casso.
I fratelli che non erano
stati scelti seguivano il gruppetto speranzosi col cuore in mano incitandoli
con preghiere.
Fra Luciano passò al
Padrenostro. “Pdrnstrchsnclisisantnomtu…” pregava con la stessa velocità con
cui il manipolo percorreva la chiesa. Il turibolo seguiva la preghiera senza
perdere il ritmo. I passi erano corti a causa della tunica francescana, ma
sembrava non toccassero mai terra.
Uscirono e li videro: gli
armeni.
Erano riuscito a
eliminare lo svantaggio iniziale. Ora era solo una questione di efficienza. Chi
avrebbe mantenuto i nervi saldi e non si sarebbe scompattato avrebbe avuto la
meglio. Sarebbe arrivato per primo alla cripta della Basilica della Natività a
Betlemme e avrebbe aperto la cerimonia di Natale. Mancavano pochi minuti alla
mezzanotte del 25 Dicembre AD 2011.
Il tempo rallentò. Ogni
passò dei frati sembrò durare interminabili secondi. Allo stesso modo i padri
armeni apparivano avanzare al rallentatore. Si guardarono duramente negli
occhi. Una mosca di passaggio fu fulminata e si crearono un paio di micro
lampi. Tutti gonfiarono il petto a tal punto che le candele quasi si spensero
per la mancanza di ossigeno da bruciare. Appena i due cortei uscirono
completamente dalla loro porta i supporter li seguirono riempiendo lo spazio
della chiesa.
Solitamente i cortei
seguono tragitti separati ed entrano da due porte opposte, ma quella notte i
capi cerimonia si diressero l’uno verso l’altro. Fra Cristoforo si trovò
davanti padre Igor. Si guardarono intensamente negli occhi senza proferire
parola. Era chiaro che uno dei due doveva lasciare il passo. Solo uno di loro
sarebbe potuto entrare nella cripta.
Tutti trattennero il
fiato per dieci minuti, il tempo che i due impiegarono per cercar di spezzare
lo sguardo di chi si trovava di fronte. Chi avrebbe battuto ciglio avrebbe
ammesso la precedenza dell’altro. Dopo quest’impasse e una decina di svenimenti
per mancanza d’aria da parte di frati e padri lasciati cadere senza cure
tant’era la tensione, fra Cristoforo parlò.
Con un sorriso forzato e senza
batter ciglio disse “Buongiorno a lei padre Igor. Non riusciva a dormire?”
“Buongiorno a lei frate
Cristoforo. Sono riposatissimo, non si preoccupi. Vedo che anche lei non
riusciva a chiudere occhio. La vedo un po’ stanco. Forse sarebbe meglio per lei
e per i suoi confratelli se tornaste nelle vostre celle a dormire. Qui ci
pensiamo noi. Non c’è bisogno di voi.” Rispose beffardo padre Igor.
“Non siamo stanchi. Voi
piuttosto. Sembrate un gruppetto che abbia bisogno di qualche ora di sonno
profondo. Potete andare pure a riposare. Noi siamo pronti.”
“Cristoforo,” Padre Igor
tagliò corto gettando i convenevoli in un cestino delle immondizie “non avete
speranza. Quest’anno tocca a noi.”
“Igor, lascia stare.
Meglio per voi che vi ritirate e lasciate il passo a chi di dovere.” Replicò il
Cerimoniere francescano con un sorriso forzato digrignando i denti.
“Il passo lo cedo solo a
chi ne è degno.”
“Coi tuoi pari il diritto
è sempre mio.”
“Apriremo noi.”
“Noi.”
“Noi.”
“Noi.”
“Noi.”
Entrambi sbuffarono come
una locomotiva a vapore che attraversa la Siberia a piena velocità. I nasi
quasi si toccavano da tanto si erano avvicinati. Pure gli occhi si sfioravano.
La carica di energia tra i due poteva bastare ad illuminare New York per
qualche anno. I loro sguardi si intensificarono per quanto si possa aumentare
l’intensità di due abbaglianti sovraccarichi.
Nel frattempo dietro di
loro i rispettivi special team erano pronti e tenuti fermi solo dal volto
inespressivo di fra Lorenzo, o come dicon tutti Renzo, e quello marmoreo di
padre Alexander che era molto grande. Si sarebbero potuti tranquillamente
scambiare per due statue, tant’è che dei turisti giapponesi gli avevano più
volte accarezzato i nasi aquilini pensando fossero delle opere d’arte per poi
correre fuori urlando in giapponese al miracolo quando starnutivano.
La folla dei confratelli
e padri non stava solamente li a guardare. Chi non era svenuto per la tensione
e il calore umano era teso come una corda di una balestra pronto a scattare. Il
silenzio fu interrotto da degli insulti lanciati da una parte e ribattuti
dall’altra come un volano.
“Mangia ostie!”, “Zitto,
pelato!”
“Rivenditore di
santini!”, “Spacciatore di benedizioni!”
“Voi armeni l’incenso ve
lo fumate!”, “Voi francescani, lo sniffate!”
E così via in un escalation
di aggressività propria da curva.
Eugenio, frate
imbottiture, tirò dei cuscini. Padre Vladimir, padre stalliere, senza pensarci
due volte passò alla rappresaglia facendo volare ferri di cavallo che stesero
due frati. Giacomo, frate imbalsamatore, lanciò due teste di alce che si
depositarono su altrettanti padri sotterrandoli. Volarono banchi, candelabri,
libri sacri e qualche vangelo apocrifo, turiboli e i frati francescani fecero
delle fruste con i loro cordoni. La situazione degenerò e le due fazioni
vennero al contatto fisico l’una urlando “ARARAT!” e l’altra “TONSURA!”
caricarono.
Mentre scoppiava il caos
i due cerimonieri continuavano la loro sfida guardandosi dritti dentro alle
pupille cercando di piegare l’avversario o fargli batter le ciglia. Nessuno
cedeva e nessuno di loro vide quello che accadeva intorno.
I frati addetti alle
pulizie si scaraventarono sui loro opposti con le scope di saggina alzate. La
controparte ripose con il mocio vileda inzuppato. Chi si occupava dell’orto si
affrontò lanciando radicchio e insalata e colpendosi nel corpo a corpo con
cetrioli e carote, anche alle spalle con i vegetali più grossi e freschi se
capitava. Un paio delle vittime caddero a terra con un’espressione di piacere.
Frate Ratatouille comandava i cuochi e stava avendo la meglio nel suo campo a
colpi di salame tipo milano, quando venne sommerso da un quintale di spaghetti
stracotti similcolla. Mentre tentava di rialzarsi gli fu versato sopra venti
chili di ketchup e perse conoscenza. Fra Luciano e il coro combatteva gli
avversari con canti gregoriani, e i padri armeni rispondevano con un coro di
voci bulgare prestati per l’occasione dagli alleati ortodossi europei. Il
libraio padre Andrej attaccava dall’alto con aerei di carta costruiti
strappando pagine del libro dei salmi, mentre fra Arnaldo appallottolava fogli
di preghiere e sparava con cerbottane usate come contraerea per abbattere i
velivoli nemici.
Fra Cristoforo ebbe un
momento di tentennamento e, sempre con lo sguardo fisso, cominciò a piegarsi su
se stesso. Al contempo padre Igor metteva a terra un ginocchio. Il frate scese
sulle proprie ginocchia sentendo le forze venir meno. L’armeno mise una mano
per terra e poi anche l’altra. La sfida di sguardi li stava stremando. Si
ritrovarono tutti e due sdraiati, ma con gli occhi ben fissi e immobili stesti
come una pelle d’orso.
In quella posizione
imbarazzante padre Igor trovò l’energia di sorridere e con la consapevolezza
del robot giapponese che sta per infliggere il colpo finale su Gozzilla gridò “Ivan!
Ora!”.
Quel grido fece si che
tutto si fermasse e che guardassero in direzione della porta degli armeni. Si
sentì uno sbuffare di toro che carica. Dalla porta, piegandosi in due per
passare attraverso e scardinandola comparve padre Ivan.
Padre Ivan aveva un
passato da boscaiolo come indicava la veste a quadri che indossava sopra gli
abiti talari. Veniva usato dalla gente del suo villaggio per sradicare gli
alberi sul Caucaso e per trasportare le rocce a valle e nelle giornate di
pioggia il villaggio si riparava sotto di lui.
I padri armeni si fecero
da parte lasciando spazio alla montagna semovente dell’Ararat. “I-VAN, I-VAN,
I-VAN!”
Padre Ivan avanzò
lentamente ma inesorabilmente verso i frati. Il panico lì bloccò. Il primo a
riprendersi fu il capo dello special team. “Per Francesco! Per Benedetto! Per
la Chiesa di Roma! Avanti!” I frati si lanciarono sull’ex boscaiolo, ma
venivano respinti come salmoni dalla corrente. Provarono una carica simultanea
in diciotto, ma rimediarono solo lesioni di secondo grado.
La partita sembrava
conclusa. Padre Igor sorrise per un’ultima volta disse “E’ fatta.” E chiuse gli
occhi.
Fra Cristoforo si vide
perduto. Non aveva la forza di alzarsi e vedeva i suoi confratelli abbattuti
uno dopo l’altro come ochette alla fiera. Dov’era Wolfang il frate militante
austriaco di Melk? Dov’era Piovesan? La speranza lo lasciò e così anche le
poche forze rimaste. Chiuse un occhio, poi l’altro. L’udito si face flebile e
proprio un istante prima di perdere i sensi sentì una voce lontana, una voce di
speranza e un grugnito di salvezza. “Ja, Ja. Sturmtruppen. Wurstel. Kruti,
Sachertorte.” Era Wolfgang e dietro di lui il respiro che faceva tremare i
vetri di Piovesan. Perse i sensi, ma non la speranza. Sapeva che potevano
ancora farcela. La partita non era ancora finita.
Fratello Piovesan di Zero
Branco, Treviso, proveniva da una famiglia di contadini. Le sue dimensioni e il
suo peso eguagliava quello del pachiderma del Caucaso. Piovesan veniva
utilizzato al suo paese per zappare la terra. Si diceva “Dove passa Attila non
cresce più l’erba. Dove passa Piovesan si può seminare.” Era andato come
missionario in Cambogia per aiutare col progetto di bonifica del territorio
dalla mine lasciate dai Khmer Rouge. Quando metteva il piede su una mina dopo
l’esplosione si girava e diceva “Hmmm?”. Usciva alla mattina e rientrava tutto
nero con il saio bruciacchiato e riportava il suo resoconto “Ho fatto una
passeggiata in mezzo ai campi. Penso che un ettaro di terra sia bonificato.”
Piovesan si pose davanti ad
Ivan. Si creò un cerchio e i due si affrontarono come due lottatori di sumo,
mentre tutti attorno incitavano il loro beniamino.
Frate Luigi se ne stava
in disparte osservando lo scontro. Era magro e alto come una cannuccia, portava
delle lenti da miope, presbite ed astigmatico, era un po’ rachitico e soffriva
d’asma. Un bambino biondo gli si avvicinò.
“Che succede frate?”
chiese con una voce melodiosa.
“Succede che stavolta
gliele diamo.” Rispose senza guardare il suo interlocutore.
“Non si dovrebbe litigare
la notte di Natale.” Osservò il bambino.
“Ah, lascia stare
piccolo. Queste sono cose da grandi. Meglio che tu te ne vada da qui. Torna
dalla mamma.”
“Mio padre dice di
porgere l’altra guancia. Non ci dovrebbe essere violenza in questo mondo.
Questo spettacolo lo rattristerà molto. Penso che non verrà oggi. E io di certo
non voglio rimanere in questo posto pieno di violenza.”
“Piccolo, ti ho già detto
che questo non è un posto per te. Vai pure da mamma e papà, purché tu ti tolga
dai piedi. Che tuo padre venga o no, non è importante. Ciò che conta è che oggi
entriamo prima noi. Vai Piovesan!”
Il bambino si allontanò.
Frate Luigi sentì un
brivido alla schiena. No, non poteva essere. Si voltò. Il bambino era già in
fondo alla chiesa. Era biondo e sembrava emanasse una luce intensa. Guardandolo
si sentì felice, quasi estasiato.
Il bambino si girò.
Guardò ancora una volta la scena. Poi guardò il frate e scosse la testa. Aprì
la porta. Una luce immensa ed accecante entrò nella sala. Nessuno si accorse in
quanto seguivano lo scontro di sumo davanti a loro. Il frate sentì il biondino
dire “Papà, mamma, andiamo via. Io non voglio rimanere in questo posto pieno di
violenza. Loro non mi vogliono, e non sembra che vi stiano aspettando a cuore
aperto. Andiamocene via da qui.”
La porta si chiuse. La
luce svanì. Luigi si sentì morire nonostante i suoi confratelli esultassero
perché Piovesan aveva appena steso Ivan il Boscaiolo con la mossa segreta della
sacra scuola della Val Brembana.
Nota: nel novembre 2008 scoppiò una rissa tra monaci armeni e greci ortodossi nella Basilica del Sacro
Sepolcro a Gerusalemme, finì in pareggio grazie all’intervento dell’esercito di
Israele.
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